Nel mese di aprile 2013 il giornalista veneziano Silvio Testa, già autore di articoli e libri sulla marineria e le vele al terzo dell’Adriatico, è stato moderatore di un dibattito dal titolo ‘Quando le barche non erano yacht’. Nel corso dell’incontro, tenutosi presso la Compagnia della Vela di Venezia, si è discusso dell’intreccio tra tradizione navale e modernità, antichità e innovazione. Ecco un sunto dell’evento, al quale hanno preso parte autorevoli esponenti di questo mondo.

Di Silvio Testa – Luglio 2013
Fotografie di Gilberto Penzo (www.veniceboats.com) e Paolo Maccione
Una flotta di imbarcazioni tradizionali (Foto P. Maccione)LA MARINERIA: I CONSERVATORI E GLI INNOVATORI
Se gli antichi protomastri dell'Arsenale di Venezia avessero avuto a disposizione colle, resine e compensati, non li avrebbero forse utilizzati? Questa domanda retorica, nel pensiero dei paladini della modernità avrebbe una sola risposta, scontata e tale da tagliare la testa al toro all'irrisolto dibattito tra tradizione e innovazione nel mondo della marineria. In realtà, il tema andrebbe circostanziato e posto in modo più preciso, perché in parte la modernità è andata tranquillamente per la sua strada, rispondendo alla domanda iniziale con gli Oracle e le Lune Rosse, ma inesorabilmente cozza con quanti nel mondo della nautica puntano a conservare la purezza di una tradizione, recuperando forme e modi antichi dell'andar per mare. La domanda interroga principalmente costoro perché, pare impossibile, anche nel mondo della tradizione gli appassionati si dividono tra conservatori e innovatori!
 
VENEZIA, ‘TERRA’ DI IMBARCAZIONI TRADIZIONALI
Il problema si pone un po' dovunque, ma assume una sua evidenza tutta particolare a Venezia, dove esistono ancora molte imbarcazioni eredi di una tradizione costruttiva millenaria. Una per tutte: la gondola. L'avvento dei nuovi materiali ha stravolto tutto, consegnando allo studio e alla memoria degli specialisti tecniche, strumenti da lavoro, perfino la lingua che li accompagnava, mentre una flotta rinnovata, uguale nelle forme a quelle del passato ma irrimediabilmente diversa nella sostanza dà l'illusione che nulla sia cambiato.
 
Un topo di Venezia (Foto P. Maccione)LA GONDOLA VERA E LA GONDOLA ‘FALSA’
A Venezia ci sono tre mondi nei quali il tema si pone in modi diversi: quello professionale dei gondolieri, quello diportistico a remi e quello diportistico a vela. Nel mondo professionale, degradato a catena di montaggio da uno tsunami turistico che ha rotto ogni argine, il problema della tradizione quasi non si pone più: se le nuove generazioni dei gondolieri potessero farsi le gondole di plastica non ci penserebbero un attimo, e se le usano tutte di compensato al posto di quella “vera” costruita con otto tipi diversi di legno massiccio è solo perchè su queste il Comune finge di non vedere mentre per quelle di vetroresina nascerebbe uno scandalo internazionale. Però uno “squèro” (cantiere) tradizionale, come quello di Roberto Tramontin agli Ognissanti dove al posto del metro si usa ancora il “passetto” veneto con le misure in “pìe” (piedi) e “dèi” (dita), fatica a reggere il passo e sembra sempre più destinato a essere messo fuori mercato.
 
CHI È IL CUSTODE DELLA TRADIZIONE? I ‘REMIERI’ O ‘LA VELA AL TERZO’?
Nel mondo del diporto si costruiscono ogni anno decine di imbarcazioni “tradizionali”, ma i “pupparini”, le “mascarete”, le “caorline”, gli “s-ciopòni”, i “sàndoli” per la voga alla veneta sono praticamente tutti in compensato, anche per essere per lo più ricoverati a terra, e il tema della difesa della tradizione non è colto, proprio non esiste. Le società remiere, anzi, si ritengono paladine della conservazione. Esiste eccome, invece, nel mondo della vela lagunare, che è ovviamente la vela al terzo, ed è all'ordine del giorno proprio perchè il sodalizio che riunisce tutti gli appassionati veneziani, ovvero l'Associazione Vela al Terzo, è nata con il preciso obiettivo statutario di difendere appunto la tradizione.
 
Il giornalista e scrittore SilvioTestaQUELLA SOTTILE LINEA DI DEMARCAZIONE ...
Il tema, come è immaginabile, è scivoloso, perchè non è facile rispondere alla domanda cosa sia la tradizione. Il “modello”, diciamo a caso, sono le barche del 1850? o quelle del 1890? o del 1930? Quale data discrimina un prima tradizionale e un dopo innovativo? Le regate, poi, spingono tutti a forzature – bozzelli con le pulegge in teflon, manovre in fibre tessili, vele di tagli inusuali, etc. – mentre il salto generazionale che c'è stato in molti cantieri, rilanciati proprio dal diportismo dopo che i vecchi “squerariòli” avevano lasciato il campo, spinge i novelli costruttori a sperimentazioni impensabili, spesso mutuate dal mondo della marineria non tradizionale.
 
L’INCONTRO PRESSO LA COMPAGNIA DELLA VELA DI VENEZIA
L'Associazione Vela al Terzo, con oltre 365 numeri velici distribuiti dalla sua nascita (15 aprile 1988) ad oggi, è probabilmente il più grande sodalizio di vela tradizionale italiano e nei suoi 25 anni di vita ha cercato in tutti i modi di definire cosa sia la tradizione, con regolamenti, tavole rotonde, dibattiti l'ultimo dei quali, dall'esplicito titolo “Quando le barche non erano yacht”, si è tenuto il 12 aprile 2013 a San Giorgio, nella prestigiosa sede della Compagnia della Vela che ha coorganizzato l'iniziativa. La serata è stata voluta in particolare da Roberto Falcone, componente del direttivo dell'Avt, e coordinata da Silvio Testa, cioé da me che scrivo questo articolo, giornalista e autore del libro “Tradizioni e regate della vela al terzo” (Mare di Carta Editore, Venezia 2011).
 
I RELATORI: PENZO, GNOLA, MUNEROTTO, PIZZARELLO, BATTISTI
Dopo i saluti di Bruno Cassetti, neopresidente della Compagnia, e di Massimo Gin, presidente dell'Avt, hanno introdotto il tema Gilberto Penzo, storico della marineria veneziana, Davide Gnola, direttore del Museo della marineria di Cesenatico, Gianfranco Munerotto, storico delle barche veneziane e in particolare della gondola, Ugo Pizzarello e Cristiano Battisti, progettisti navali, che hanno illustrato il progetto di un “topo” (classica barca lagunare) planante e con randa steccata.
 
Ugo Pizzarello e Cristiano Battisti hanno illustrato il loro progetto di un topo veneziano plananteIL DIBATTITO
Che dire? Se Penzo ha illustrato anche con esempi fotografici le distorsioni delle innovazioni nel corpus della tradizione, se Gnola ha parlato delle barche tipiche come veri e propri beni culturali da difendere a norma di legge, se Munerotto ha messo in guardia dall'illusione del mantenimento delle forme tradizionali con l'uso di materiali incongrui, è stata una successiva chiacchierata tra giovani e vecchi costruttori a calare la discussione dalla teoria degli studiosi e degli appassionati alla pratica di chi tutti i giorni si scontra coi problemi reali dei materiali, dei committenti, del contesto generale totalmente diverso da quello di un tempo. Da una parte i “vecchi”, Agostino Amadi, conduttore di un cantiere di Burano fondato nel 1700, e il già citato Roberto Tramontin, dall'altra i “nuovi”, Carlo Zanetti, Piero Tapetto, Matteo Tamassia, Carlo Zen, che però non si sono fronteggiati tra tradizionalisti e modernisti quanto piuttosto hanno raccontato le loro esperienze e offerto il loro punto di vista. Non ne è emersa una sintesi che possa aiutare l'Associazione Vela al Terzo o altre associazioni consimili a trovare una risposta alla domanda cosa sia la tradizione, che forse non c'è.
 
IL LIBRO ‘TERRA MADRE’
In un libro di tutt'altro argomento, “Terra Madre” di Carlo Petrini, nel quale si parla di cibo e di colture, si definisce la tradizione come “un'innovazione ben riuscita”, si afferma che è un errore vederla come una dimensione immobile, che appartiene al passato e che non evolve, si riferisce che le comunità agricole che combattono l'omologazione industriale sono in realtà per la continuità della tradizione pur rifiutando come un grave errore il non approfittare dei mezzi che la tecnologia offre loro. Come si vede, più che di una definizione si tratta del suggerimento di un metodo che poi di volta in volta va calato nella contingenza dei casi, usando responsabilità e buon senso. Di più crediamo non si possa dire.
 
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